OFFF 2009 – E’ successo….

Dal 7 al 9 maggio sono stato a Oeiras, paesino sconosciuto nei pressi di Lisbona, per noi italiani significativo più che altro perchè situato nelle vicinanze di Cascais, la località balneare più famosa della Costa de Estoril, dove, nel 1946, Umberto I fu esiliato da Mussolini. Oggi in pochi si ricordano queste vicissitudini storiche e la zona ha acquistato valore soprattutto grazie alle proposte culturali, dall’imponente museo di arte contemporanea di Belem a OFFF, Festival di creatività post-digitale, che per la seconda edizione si è svolto a Oeiras. Offf è un festival ideato e diretto da Hector Ayuso (presto pubblicheremo una sua intervista ).

OFFF è un progetto culturale e imprenditoriale che forte delle sue proposte e delle sue idee ha avuto una storia di spostamenti e riorganizzazioni continue in questi suoi nove anni di vita. La sua forza è stata propria la capacità di reinventarsi ogni anno, dimostrando una capacità di rinnovamento inusuale. Ci tengo a sottolineare come questo progetto nasca principalmente dalla necessità del curatore di allestire un momento dove i principali fautori delle sperimentazioni audiovisuali in Flash potessero mostrare i propri lavori e incontrare il pubblico. Dal lontano 2001, quando c’è stata la prima edizione il format è mutato considerevolmente, aprendo con successo verso tutta la creatività contemporanea, che nella pratica quotidiana non vive quella frattura ormai sanata tra digitale e analogico. Oggi, gli artisti e i designer che utilizzano le tecnologie tendono a considerare i linguaggi espressivi come un continuum che pervade senza soluzione di continuità tutta la nostra realtà. Le metodologie e gli artifici per la realizzazione di un sito web o per l’allestimento di un negozio sono differenti, ma nascono all’interno di un contesto produttivo dove immateriale e materiale si compenetrano.

Il programma ha presentato accanto a maestri del software come Joshua Davis e Aaron Koblin, designer di fama internazionale come Robet L. Peter, Paola Sher, Stefan Sagmeister, o autori come Pes, Hi-Res, Chris Milk, fino ai più importnati studi della creatività contemporanea, come Digital Kitchen, Champagne Valentine, U.V.A, Jason Bruges Studio.

OFFF 2009 è stato allestito all’interno di un imponente spazio industriale. Dove pochi anni fa i ravers imperversavano oggi sono i designers a “occupare” zone dismesse e a creare TAZ focalizzate sul design e sulla creatività piuttosto che sulla musica e sulla lisergia. L’organizzazione di questa manifestazione è ottima. All’interno del capannone non manca niente: servizi sanitari, aree di ristoro, zone chill out e aree di ristoro. A facilitare ulteriormente la vita del pubblico l’ottimo cambio portoghese, che ti permette con meno di 5 euro di fare un ottimo pranzo. Il progressivo allargamento nella tipologie di proposte è stato accompagnato da una progressiva crescita del pubblico. Quest’anno mi ha particolarmente colpito la presenza di ragazzi molto giovani, a testimonianza del fatto la cosiddetta “creatività allargata” è ormai un dato di fatto.

E ora entriamo nel merito della manifestazione. Fail Gracefully, Fallire con grazia, è il tema di questa edizione. Un tema che è figlio di due idee, una legata alla società nel suo complesso e l’altra al design. Siamo in tempo di crisi, e OFFF cerca di dare la sua visione su questo momento, che come ricorda Florian Smidt nel testo del catalogo, è un’occasione assolutamente da non perdere. Nelle crisi si aprono possibilità di sviluppo inesplorate nei momenti di sicurezza sociale. D’altro canto è massima riconosciuta del design quella che dice “Fail soon, Fail often”, e così il fallimento anche nel processo di design diventa un momento fondamentale oltre che categoria estetica. Il festival ruota intorno a 3 sezioni principali: Roots, Loopita e Open Room. Quest’ultima è costituita da interesanti progetti creativi presentati in un contesto più intimo rispetto al grande palco della sezione Roots. Non ho seguito molto questa sezione, ma ho trovato molto interessante il progetto di Rudolfo Quintas, che ha presentato un live set musicale dove l’interfaccia per controllare i suoni erano due accendini da lui tenuti in mano: uno spettacolo molto potente nella sua immediatezza e sinestesia tra gesto e espressione musicale.

LOOPITA, la sezione espressamente dedicata alla musica, quest’anno è stata interamente dedicata all’etichetta che più di tutte ha fatto dell’estetica dell’errore la sua cifra stilistica: la Raster-Noton. Durante i 3 giorni tutti i più importanti musicisti dell’etichetta si sono succeduti sul palco, Pixel, Ruby, Kanding Ray, Pomassl, Byetone, Alva Noto, Frank Bretscheinder, Signal, più Fennesz come invitato speciale, dando vita alla 3 giorni più glitch della mia vita. Sulla mia pagina di Youtube potete vedere alcuni di questi live set.

La qualità dei progetti presentati era di assoluto interesse, ma i musicisti poco hanno potuto nella concorrenza con i designers, situati nella sala Roots, che sono riusciti a riempire in toto, riuscendo a far stare sedute e attenti 3000 persone, pendenti dalle labbra dei loro idoli e ispiratori, per oltre 10 ore consecutive: una vera e propria festa non stop del design. E quindi veniamo al fulcro del festival, il salone ROOTS. Un capannone immenso dove 3000 persone hanno assistito alle presentazioni dei migliori designer e video artisti della comunicazione contemporanea. Ad aprire il festival Neville Brody, designer di fama mondiale, responsabile tra le altre cose del nuovo layout del Times. Il suo è stato uno degli interventi più interessanti a mio parere, assieme ad altri affermati designer come Robert L. Peters, Paola Sher e Stefan Sagmeister. Ho apprezzato i loro interventi, soprattutto per la loro apertura intellettuale, che non li ha visto confinato strettamente nel cosiddetto paradigma digitale, forse proprio perchè avendo una certa esperienza sul campo sono in grado di porsi nei confronti della comunicazione con la giusta dose di esperienza e creatività. E così dimenticando per un momento Flash, Photoshop o Processing, ci siamo potuti immergere in un mondo dove la passione per il lavoro diventa uno stimolo per proporre ideali e visioni piuttosto che stili e tecnologie. Neville Brody ha espressamente dichiarato quanto per lui il design sia costituito da possibilità, dove la sua tendenza a rimanere astratto è un mezzo per coinvolgere maggiormente il fruitore. Ha sottolineato l’importanza di porsi tra il mondo digitale e il paesaggio umano, senza dimenticare nessuno dei due e soprattutto senza dimenticare l’importanza di avere dei limiti. Forse è proprio questa la differenza fondamentale tra un designer e un artista, dove il primo agisce un regime comunicativo mentre il secondo in uno espressivo. Il limite, inteso come situazione al cui interno instaurare una comunicazione, è la forza dei designers. Brody ha ripetuto con forza: “liberatemi dalla libertà”. Segnando ulteriormente lo scarto tra design e arte Brody ha ricordato quanto il design non debba stare nei musei, in quanto design è uno spazio vivente, dove avviene comunicazione. Il designer americano ha chiuso l’intervento con un’auspicio e una considerazione: l’augurio riguarda l’idea che oggi più che mai è necessaria una guerra civile all’interno del design, dove i contendenti sono design e anti-design. La considerazione riguardava invece la situazione politico economica globale, dove Brody ha sottolineato come in questo momento di crisi è il momento giusto per realizzare nuovamente esperienze di rottura radicale con lo status quo.

Il giorno successivo è toccato a Robet L. Peters e a Paola Sher di scaldare il pubblico, grazie ai loro interventi venati da un forte idealismo critico. Il designer canadese presentando i suoi lavori ha scagliato frasi affilate come lame sul pubblico: “abbiamo confuso la qualità della vita con la quantità delle cose possedute”, citando Brody ha colpito ancora più a fondo “lo shopping ha sostituito la cittadinanza nella pratica della democrazia” e poi ha chiamato tutti all’impegno sociale dichiarando, sempre citando Brody, che “i designers sono la prima linea di un’armata dedicata all’occupazione della mente”. Sullo stesso cammino di impegno sociale e professionalità si pone Paola Sher, famosa per il suo estensivo uso della tipografia. In un continuum di lavori da lasciare senza fiato, la designer attivista newyorkese, trova il tempo e la voglia di mostrare al pubblico quanto una cattivo design, come quello delle schede per il voto delle elezioni 2000 tra Bush e Gore, abbia palesemente favorito il repubblicano, che grazie a un cattivo/malevolo design delle schede di una contea della Florida è riuscito ad accaparrarsi la Casa Bianca. Impressionante la profondità e la professionalità di designer di questo calibro.

Allo stesso tempo impressionante la potenza di Joshua Davis, che quando è salito sul palco ha trasformato con la sua presenza una sala da conferenze in un concerto rock. Data la sua partecipazione di lunga data con questo festival, ha perso solo un’edizione, quest’anno è stato ufficialmente dichiarato “padrino del festival”, con tanto di foto con il sigaro… Il pubblico è in visibilio, lui è irrefrenbile, forse anche per le tre lattine di stimolante che si beve lungo la presentazione. L’inizio è da fuochi d’artificio, con Joshua che corre lungo tutto il palco per non farsi riprendere dal cameraman, riuscendoci solo buttandosi dietro al tavolo centrale. Il giorno dopo farà vedere a tutti quanto il “design ferisca”: si è procurato un’abrasione alla gamba destra in questo suo skectch iniziale. Ma di sicuro non è un’abrasione a fermare questo ex skater professionista, che ancora oggi a 38 anni si fa fotografare in spericolati salti con lo skate, sua vera passione.

Ho visto le conferenze di Joshua Davis diverse volte, e posso dire è stato come al solito esplosivo e molto stimolante. Chi meglio di lui poteva parlare dei fallimenti e dell’estetica dell’errore, un designer che basa tutta la sua estetica sua una serie di software da lui costruiti, ma di cui non ha il controllo totale, demandando parte del processo creativo a processi random, che come dice lui, fanno del lavoro al posto suo, montando assieme tutti i piccoli elementi grafici che lui inserisce nel processo, permettendogli di svolgere più una funzione di selezionatore che di costruttore. Joshua Davis quando inizia un processo creativo non ha mai idea chiara di dove andrà a parare, non è uno di quei desinger che hanno un progetto e un’idea ben chiara fin dall’inizio, il suo processo creativo è una scoperta, un’avventura, come quando in skate andava a conquistare nuovi territori urbani inesplorati.

Per finire sabato sera ho visto per la prima volta dal vivo Stefan Sagmeister, prendendo a prestito un’espressione calcistica oserei dire “un fenomeno”, più che un designer. Questo “austriaco felice” si è presentato sul palco con jeans e un vestito femminile a pois, in modo da far capire subito al pubblico quanto il suo sarebbe stato un’intervento sui generis. E così è stato. Ha iniziato affermando quanto a lui piacessero poco le definizioni, per cui non avrebbe raccontato che cosa è per lui il design, ma visto che per lui il design è felicità, avrebbe parlato di cosa è la felicità. Pubblico in visibilio. E così è iniziata l’ora di conferenza più stimolante del festival, con Sagmeister, che prendendo spunto dal suo ultimo lavoro “Things I have learned so far in my life”, ha raccontato al pubblico estasiato quanto “Honesty Can Solve Any Problem” , “Do what you want”, “You kill time, time kills you” e mostrando come abbia cristallizzato queste sue riflessioni nella realtà, ogni volta utilizzando diversi stili, tecniche e idee. Un artista in continua evoluzione, l’unico forse in grado di poter affermare la necessità di cambiare sempre stile e media, rimanendo pur sempre assolutamente illuminante. E qua si nota la differenza principale tra questo designer e tutti gli altri: ad esempio Robert L. Peters aveva posto l’accento sull’importanza di conoscere bene pochi strumenti e con quelli costruire uno stile personale o per rimanere più strettamente nell’ambito digitale Joshua Davis stesso lavora praticamente solo uno strumento solo da lui creato, che genera immagini bellissime e molto diverse ogni volta, ma fondamentalmente l’estetica è sempre uguale. Con Sagmeister no. Pur avendo un ostile ben definito, questo designer è in grado di usare indifferentemente diversi stili e linguaggi. E così abbiamo potuto apprezzare come abbia disseminato il mondo di queste sue frasi utilizzando sculture realizzate a mano, prodotti realizzati da stampanti laser, siti web, video, lettering vegetale, etc….

Qualcuno tra il pubblico si anche lamentato per questa eccessiva apertura di OFFF nei confronti di designer non strettamente legati al digitale, ma penso che avendo comunque in programma autori del calibro di Digital Kitchen, One Size, Joshua Davis, Aron Koblin, Florian Smidt, anche i programmatori hanno potuto trovare numerose fonti di ispirazione.

Senza dimenticare l’interessantissimo panel NERDFERENCES, inaugurato quest’anno e curato da Julia Carboneras, dove Eric Wilhem (instructables.com), Peter Kirn createdigitalmusic.com) e Gijs Gieskes hanno presentato i loro progetti DIY. OFFF è finito, state pronti per la prossima edizione, sarà la decima, e conoscendo l’organizzazione ne vedremo delle belle.

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