(It) Da JoDi al crowdsourcing: per una rinegoziazione dell’hacktivism | Marketing Non Convenzionale – Ninja Marketing

Da sempre l’arte è saccheggiata da pubblicitari e aziende. Ecco un articolo da Ninja Marketing sul ri-uso della net.art da parte della Dell.

Chissè se JoDi a qusto punto chiederà i diritti d’autore….

Grazie ad una segnalazione del maestro Alex Hokuto No Ken, ho letto un interessante post che, partendo da recenti riusi della net.art si amplia a riflessione sul valore della creatività e della partecipazione in Rete.

L’articolo prende le mosse dall’immagine scelta per pubblicizzare Motherboard TV, nuova piattaforma di networking sponsorizzata da Dell.

In realtà si tratta di un riferimento all’homepage di Jodi.org, collettivo artistico piuttosto noto simbolo della prima net.art, a cui è stata dedicata una mostra a New York nel dicembre 2009.Per chi non lo sapesse i JoDi – Joan Heemskerk e Dirk Paesmans – sono due artisti olandesi, già vincitori del Webby Award per l’arte nel 1999. Si dice che in quell’occasione i due avessero litigato con un cameraman, per poi pronunciare un succinto ma incisivo discorso per la consegna del premio in appena cinque parole: “Ugly commercial sons of bitches“. Capite bene di che genere di persone stiamo parlando e quanto sia sorprendente quello che stiamo per analizzare.

Perché allora la scelta di Motherboard è caduta proprio su questo collettivo-simbolo vedete sopra il video con l’intervista? Come ben sottolineato nell’articolo, la realtà è che i principi dell’etica hacker sono ormai divenuti dominio di molte delle aziende che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo del Web 2.0 e dei social media. In tal senso – bisogna ammetterlo – Dell è certamente tra le imprese che riescono a creare un grado di engagement maggiore con i propri fruitori e a sfruttare le potenzialità offerte dalla Rete. La stessa arte digitale, in particolare l’ASCII art, è usata nelle campagne marketing di vari prodotti come nel caso del videogame Dante’s Inferno.

L’idea stessa di condivisione, apertura, decentralizzazione e soprattutto libero accesso, principi cardine dell’immaginario hacker, sono oggi ricontestualizzati in un’ottica promozionale e di mercato. Ciò che precedentemente rappresentava il male da scongiurare è diventato cool, anzi, sembra esserci stata una sorta di traduzione – nel senso semiotico del termine -, di spostamento di significato da un preciso contesto di nicchia ad un più ampio ambiente commerciale, in cui fregiarsi di certi valori diviene motivo sì di orgoglio, ma soprattutto e prima di ogni cosa bandiera vincente o pretesa tale a livello promozionale. In molti casi chi condivide e sviluppa software vuole che il proprio ambiente appaia come aperto e improntato al progresso, ed in effetti il motto di Google – come nota l’autore del post – è davvero emblematico: “Don’t be evil“.

I cattivi sono dunque quelli che restano fuori da questa logica collaborativa.

Ciò significa, in ultima istanza, che il concetto stesso di collaborazione e di arte sta mutando. E’ vero: numerose avanguardie – da Fluxus alla Mail art – hanno sempre avuto tra i propri intenti quello di creare una forma di arte collaborativa supportata da nuovi modelli di condivisione della conoscenza.

Certamente oggi i social network costituiscono un terreno fertile per questo genere di propositi, ma non sarebbero nulla senza tutto quell’insieme di attività sperimentali in campo artistico e tecnologico, cominciate già nella seconda metà del secolo scorso. E’ da allora che inizia un lento passaggio dall’idea di arte come oggetto a quella di arte come rete di relazioni e possibilità di azioni collettive

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