Intervista a Ryan Watkins-Hughes

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Intervista a Ryan Watkins-Hughes che presenta Shopdropping a Share Festival 2009 nell’ambito di Market Forces, un’esposizione curata da Simona Lodi.
Simona Lodi: Che è lo shopdropping? Nel 2004 l’avevi definito…
Ryan Watkins-Hughes: Shopdrop consiste nel mettere prodotti in esposizione in un negozio, di nascosto. Una forma di “culture jamming”, il contrario di rubacchiare nei negozi, l’opposto di droplift. *
SHOPDROPPING è un progetto in corso che consiste nell’alterare le confezioni dei prodotti per poi riporle di nascosto sugli scaffali dei negozi. Sostituisco le confezioni con etichette realizzate con le mie fotografie e pitture. I lavori sottoposti a shopdropping diventano una serie di oggetti d’arte che la gente può comprare in un qualunque negozio. Visto che i codici a barra e i prezzi rimangono intatti, non è difficile comprare i prodotti alterati prima che vengano scoperti e rimossi. In un’occasione prodotti in lattina modificati con lo shopdropping sono stati persino assegnati a un nuovo reparto sulla base delle informazioni del codice a barra.
S.L.: Cosa significa e perché sei interessato a creare arte nei prodotti da supermercato? E perché hai deciso di lavorarci attraverso l’arte?
R.W.H.: Shopdropping, come altre forme di culture jamming, tenta di acquisire o di sovvertire la proprietà dello spazio visivo che viene destinato sempre di più alla pubblicità. Ma per quanto il lavoro abbia insite certe implicazioni politiche, la mia attenzione è, al contrario, rivolta al semplice atto dadaista che consiste nel dare vita a un momento di pura creazione e privo di senso, all’interno di quello che normalmente è un ambiente materialista e corporativo regolato dall’efficienza. L’arte esiste in una condizione di libertà che le consente di non avere alcuna finalità logica o pratica.
S.L.: Cosa hai imparato dal progetto, voglio dire, cosa volevi dimostrare?
R.W.H.: Ho imparato le seguenti lezioni: prima di tutto trovo che sia più facile incasinare l’ordine stabilito delle cose in sordina e con un po’ di umorismo piuttosto che calcando la mano e sbraitando. Mi piace la semplice sovversione di shopdropping che fa emergere diverse questioni, senza essere apertamente didattico o predicatorio.
In secondo luogo, ho imparato che gran parte delle persone al lavoro o quando fa la spesa in un negozio, è troppo assorta nei suoi pensieri e stati d’animo per notare impercettibili, ma talvolta neanche troppo, cambiamenti nel suo campo visivo. Molti di noi affrontano la giornata con una lista di lavori e di cose “da fare” con cui si è cullato la notte prima andando a dormire.
In terzo luogo ho realizzato che è più semplice scusarsi e riuscire a giustificarsi a parole nel momento in cui si viene scoperti a “piegare” una regola, piuttosto che chiedere il permesso.

S.L.: Hai dichiarato che lo “shopdropping è come l’arte dei graffiti” mi potresti spiegare questo tuo concetto?
R.W.H.:Condividono lo stesso stimolo di partenza che consiste nel desiderio di mettere in mostra qualcosa che si opponga allo status quo. L’artista di graffiti, o “street artist”, prende in mano la situazione e, di nascosto, opera un intervento visivo nel nostro ambiente. Shopdropping funziona allo stesso modo, ma invece di lavorare sui muri e sui tabelloni adibiti allo spazio pubblicitario, porta il problema direttamente sugli scaffali dei negozi.
S.L.: grazie Ryan.

*Per via dell’uso allargato del termine, evito di dire “Principalmente utilizzato in progetti di media tattici e installazioni artistiche” dalla definizione. Inoltre la sempre più diffusa nozione del termine “culture jamming” contribuisce a rendere ridondante la frase. Il termine droplift proviene da The Droplift Project il cui link si trova nella pagina Related Projects  qui http://www.shopdropping.net/index.html