Interviste Share Prize: Ernesto Klar

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– Ci potresti raccontare come hai cominciato a interessarti di media art?

È successo negli anni Novanta quando ero un musicista. All’epoca componevo e suonavo principalmente musica sperimentale con il mio gruppo (i Klaresque Ensemble). Verso la fine degli anni Novanta ho cominciato a interessarmi di computer music ed è stato a quel punto che mi sono appassionato alle possibilità interattive, partecipative e generative offerte dalle tecnologie digitali. Lentamente ho smesso di comporre e di suonare musica e sono passato dai concerti alle installazioni.

– Luzes relacionais si ispira ai lavori e alle inclinazioni artistiche dell’artista brasiliana Lygia Clark. Al contempo mi sembra che porti avanti il tuo discorso artistico che emerge nell’opera Parallel Convergences, in cui l’elemento chiave è il tentativo di rendere visibile e interattivo l’invisibile. Cosa ne pensi?
La volontà di rendere percepibile e di trasformare l’impercettibile è una costante del mio lavoro già da qualche tempo. Si tratta di una ricerca che risale alle mie opere musicali prima che passassi alla media art. “Luzes relacionais” porta avanti quel tipo di ricerca nella misura in cui sfida i modelli tradizionali di percezione, oggettività e partecipazione. Ma, rispetto ai miei lavori precedenti, quest’opera si concentra maggiormente sulla partecipazione. Analizza il modo in cui l’individuo e l’essere umano come soggetto espressivo occupano uno spazio mutevole e incostante in relazione agli altri. Più spettatori entrano e interagiscono nello spazio luminoso tridimensionale. Si viene perciò a creare un’espressione dello spazio collettiva e partecipata. “Luzes relacionais” pone l’accento su quello che Lygia Clark aveva definito come la natura organico-espressiva dello spazio. Ecco perché l’opera è un tributo alla ricerca estetica di Lygia e, in particolar modo, alla sua concezione della “linea organica”. Ora, a parte la natura intuitiva, sensuale e giocosa dell’elemento interattivo, l’opera funziona anche come entità autonoma senza l’interazione con gli spettatori. Il sistema sovverte bruscamente, a intervalli predefiniti ma anche in maniera casuale, le interazioni con gli spettatori per dare vita a un suo dialogo con lo spazio (e con chi lo occupa) trasformando le sequenze geometriche di luce. La natura organico-espressiva dello spazio di cui si accennava prima assume d’improvviso qualità matematico-artificiali. Gli spettatori d’un tratto si ricordano che l’opera ha una sua autonomia e che dietro al sistema c’è una macchina che regola l’esperienza collettiva. La sensazione di controllo che avevano sviluppato gli spettatori si dissolve all’improvviso per manifestarsi nuovamente nel momento in cui il sistema ritorna alla sua modalità reattiva.

– Nei tuoi lavori utilizzi sempre elementi minimalisti come la luce, le linee, glitch music e luoghi d’ombra. Cosa vuoi esprimere attraverso questo tuo linguaggio audiovisivo ridotto all’osso?
Come dicevo prima, ciò che mi attrae è la soglia tra ciò che si può percepire e ciò che invece sfugge alla percezione e, in particolar modo, sono affascinato dalle potenzialità poetiche insite nell’espressione e nella trasformazione di quel confine. Tramite una lieve ma talvolta anche radicale manipolazione di luce, suono e spazio, le mie opere sono finalizzate a ricreare esperienze in cui gli spettatori sono coinvolti in un’immediatezza percettiva attraverso la loro fisicità, la loro capacità di manipolazione e il loro comportamento. La luce è uno strumento ideale per esplorare questa soglia dato che è quello che ci consente di percepire il mondo tridimensionale da cui siamo circondati. Le zone d’ombra finiscono per diventare la scenografia ideale per le mie opere in quanto consentono una percezione più intensa dei fenomeni che si verificano al loro interno. Anche il suono, sotto una prospettiva uditiva, è molto importante per motivi analoghi. Nelle mie installazioni audiovisive mi occupo per prima cosa del suono, sia che sia prodotto al computer sia che sia analogico, sfruttando anche tecniche di sintesi sonora e di spazializzazione del suono. Spazio, creazioni visive e sonore interagiscono sempre tra loro nel mio processo creativo – e di solito sono direttamente collegate all’opera conclusiva. Devo precisare che io non definisco “glitch music” il mio modo di utilizzare il suono. Non fraintendermi, sono un appassionato di quello stile musicale, ma credo che il mio modo di lavorare con il sonoro non abbia molto a che vedere con la “glitch music” o anche solo con la musica in generale. E, per concludere, la mia inclinazione verso quella che può essere considerata un’estetica visiva austera, in bianco e nero, emerge in maniera spontanea nel corso del mio processo creativo.